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GLICINE E GRUVIERA

9 Aprile 2021 | di Roberta Schira

i mondi di carta - Roberta Schira

”Non è  l’angolo retto che mi attrae, e nemmeno la linea retta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Ciò che mi attrae è la curva libera e sensuale. La curva che incontro nelle montagne e nei fiumi del mio paese, nelle nuvole del cielo, nelle onde del mare, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’universo”.

Oscar Niemeyer

 

Quelle belle parole le aveva copiate lui, otto mesi prima, su un foglio di carta riciclata, scritto con la sua calligrafia tutta angoli acuti. Le aveva di certo trovate in rete, probabilmente a notte fonda, le aveva lette e subito, quello che il vecchio e famoso architetto brasiliano sosteneva parlando dei suoi edifici, gli sarà sembrato perfetto per la sua donna. Dopo un paio di settimane è sparito, ma il foglietto è rimasto lì, attaccato allo sportello. E vi dico, lei non lo leverà mai: è come se fosse un suo ritratto, il suo vangelo. E’ forse l’unica, reale dichiarazione che lei abbia mai ricevuta da un uomo.

Sì, lui l’ha abbandonata senza alcun apparente motivo.  Un giorno ha rimesso il suo pc portatile nella custodia, ha mangiato uno spicchio di mandarino, ha sistemato in una borsa  la sua copia un po’ spiegazzata della “Versione di Barney” e addio, nessuno lo ha visto più. Neppure una telefonata.

Io, invece, non me ne vado, son sempre qui.  Le prime settimane era davvero disperata, poi lentamente il tempo fa il suo lavoro. Non faceva che piangere e dormire, dormire e mangiare: ciascuno scappa dal dolore come può. Per un certo periodo, aveva deciso di farsi consolare da una  amica ritrovata, un notaio sovrappeso con deliri di onnipotenza, certa Susy. Non vi dico i bagordi in cucina.

L’unica cosa chiara è che da quando se n’è andato le sue ricognizioni notturne in cucina si sono moltiplicate. Cosa faccio per aiutarla? Che domanda paradossale cosa volete che faccia il mio ruolo è piuttosto contraddittorio: lei mi desidera e mi teme. Vuole servirsi di me e vorrebbe starmi lontana: ah, che vita!

Non credo che si renda conto di quanto io riesca a sondare il suo cuore, del fatto che riesca ad anticipare i suoi desideri  come un cameriere professionista, come una fedele nutrice. Ad esempio, io so che appena entrata in casa dall’ufficio ha voglia di latte freddo, che a una certa ora della notte cercherà proprio quel pezzo di pollo sul secondo ripiano e lo intingerà nel vaso della maionese eccetera. In somma, io conosco ogni ombra del suo animo,  ogni piega dei suoi visceri. Io so le cose ancora prima che lei le desideri. Quindi posso dirvi con certezza: lei non è felice.

Conosco alla perfezione quel sorriso amaro che si disegna sul volto quando entrando in cucina vede la sua immagine così goffa riflessa nel vetro del forno, il suo sguardo rassegnato. Io la trovo comunque bella, anche se per via dell’abbandono di cui vi dicevo all’inizio, è ingrassata troppo. Il suo problema, lo avrete capito, è che mangia  quasi esclusivamente di notte. Di giorno dice di essere a dieta, e inganna tutti.

Ma io che la vedo nelle tenebre, un po’ scarmigliata, con quel cono di luce impietoso a illuminarle il viso. Che la vedo, dicevo, in piena notte, senza trucco, con le carni libere e un po’ tremolanti sotto la camicia da notte, be’ vi posso dire che è profondamente sconsolata e non è un bello spettacolo, nossignori.

Una domestica, cui lei passa dettagliatissime indicazioni sugli acquisti, ha il compito di procurare rifornimenti ogni due giorni. Ho il sospetto, ma è quasi una certezza, che lei osservi scrupolosamente le vetrine di un paio di gastronomie in centro ( le scritte sulle confezioni lo confermano) e, una volta conclusa la sua perlustrazione, invii la sua emissaria, in spedizione. Se in casa non c’è nulla per colmare i suoi vuoti, allora se ne va in una trattoria, una trattoria di lusso nella piazza, proprio di fronte all’edicola.

Lei predilige il salato, l’ho appurato.

A volte prepara qualche manicaretto, e quando succede è un tripudio per la portinaia. Strano a dirsi, non mangia quasi nulla di ciò che ha cucinato, anche se ci ha impiegato un giorno intero. Regala tutto ai vicini: terrine di fegato grasso e spugnole sode; burrosi e friabili bastoncini di sfoglia; piccoli madeleine salate al gruviera  dal vago aroma di tartufo, cioccolatini ripieni di ganasce all’amarena.  Che meravigliosa creatura, ancora mi chiedo come le sue mani così grassocce  riescano a forgiare manicaretti tanto minuscoli e raffinati. Ecco, quelli in cui cucina insieme a me, sono i momenti migliori. Siamo soli io e lei e posso godermi tutto il suo sapere, il suo gusto per assaggiare,  tagliuzzare, impastare. Alla fine è sfinita. Credo che succeda a tanti. Prosciugati della forza creatrice necessaria per “fare”, non rimane neppure un rivolo di energia per l’assaggio. Sì, lei non cucina una torta; lei fa una torta. Il verbo magico che ha la stessa radice di felicità, se non sbaglio.

Gli umani, in questa parte del mondo, mangiano per futili motivi. Il cibo o lo odiano o lo amano. Sono rari quelli che vi si avvicinano con il giusto approccio, cioè moderazione condita con un tocco di piacere. Perlopiù si ingozzano per paura della morte, spesso per colmare un vuoto, per difendere un animo fragile con una buona scorta di grasso a proteggerli. Per non parlare di quelli che non vogliono ingrassare per non essere attraenti e quindi per non cadere in tentazioni adultere. Molti usano il cibo per  punirsi di fatti per cui non dovrebbero sentirsi in colpa.  Quelli che non mangiano, forse lo fanno per attirare l’attenzione, perché vogliono castigare i famigliari, una madre ossessiva, un padre assente, perché si vedono grassi, non mangiano per  purificarsi, per non contaminarsi. In somma, portando l’attenzione sul cibo, è facile deviarla da problemi  più gravi e cose profonde che abbiamo dentro e che non vogliamo affrontare.

Quasi tutte le notti si siede in cucina, sistemando le  grasse natiche sulla thonet che trascina dallo studio. Così, comodamente attovagliata, se ne sta lì davanti alla porta spalancata, quasi in trance anche per un’ora. E non avete la minima idea della quantità di cibo che riesce a deglutire. Poi se ne torna a letto, e riprende a dormire. Come faccia, Dio solo lo sa.

La mia compagna notturna è un avvocato di buona famiglia, dotata di mezzi economici e vivace intelligenza. Lei sa, tra bustini e tailleur cuciti  su misura, mimetizzare i suoi ottanta chili abbondanti, sa annebbiare la vista, tant’è che  il suo ultimo assistente di studio la definisce “una bella donna”  per via del  sorriso smagliante e del suo rossetto sempre impeccabile.

Non fatevi ingannare, a casa non sorride molto, odia suo fratello che considera un sciocco, coltiva poche amicizie femminili ora, troppo magre per non suscitare un inconscio impulso di insana (o sana)  rivalità da taglie: 50 contro 42. Sul lavoro? Tanti squali. La madre poi, non perde occasione per ricordarle quotidianamente il suo mancato matrimonio e i chili di troppo. Lei ha un disperato bisogno di amore. E quindi mangia. Mangia di notte, proprio quando la privazione delle carezze si fa più feroce.

Uno si chiede come facesse a portarsi in casa quella schiera di cialtroni, sciatti, volgari, incolti. Nessuno era degno di lei. Tutti tranne l’ultimo, che le ha ferito il cuore.

Lui riusciva a sentire nell’aria quando stava per cadere vittima dei suoi raptus notturni, quando si affacciava alla voragine e doveva colmarla ingurgitando tonnellate di cibo, rimuovendone poi il ricordo. La raggiungeva in cucina, dopo aver attraversato il salone a piedi nudi, un po’ assonnato e la abbracciava immobilizzandola da dietro. Le toglieva dolcemente di mano il triangolo di formaggio che teneva tra le dita e lo rimetteva al suo posto. A volte, mentre lei era in  piedi, senza una parola, le sollevava lentamente la camiciola color glicine e la amava lì sul tavolo di granito, con la premura e lo struggimento riservati a un cucciolo abbandonato. Senza  tuttavia la presunzione di chi ti aiuta perché sei il più debole, senza l’implicita allusione che in te c’è qualcosa che non va,  lui aveva quel modo di prendersi cura di lei che si avvicinava al  concetto di servizio.

Riusciva a presagire le notti più critiche e così all’improvviso la faceva vestire e la conduceva a forza fuori, nella città buia, al freddo. Riottosa al principio, dopo aver fatto il giro dell’isolato, lei si tranquillizzava e dormiva senza incubi né voglie notturne.

Dirvi perché se n’è andato non lo so. Non ne conosco il motivo. Sebbene vi abbia detto che raggiunga ogni piega del suo animo, non posso penetrarvi del tutto perché neppure lei lo sa ed è proprio questo  che distrugge negli abbandoni: la mancanza di  risposte.

In quei momenti, ora che non c’è più nessuno che la avvolge in un abbraccio contenitivo, io la amo, mi sento quasi una sua emanazione, un pezzo della sua mente, perché so che lei è ossessionata dal mio pensiero. Non fa che pensarmi tutto il giorno: mi pensa quando sono troppo pieno e quando sono vuoto. E non mettete in dubbio la mia parola; si sa, non conosciamo i nostri  proprietari più che un sacerdote  un  proprio fedele.

Io le farò la promessa di non rompermi mai, di starle vicino. Oppure il contrario, con la forza del mio amore puro bloccherò lo sportello in modo che lei non possa più aprirmi, la notte. Anche io la amo, ma il destino mi impedisce di dimostrarlo. Prima o poi anche io lascerò un foglietto sulla mia porta, anche io le regalerò parole di conforto. Qualcosa tipo: “Sei bella, sei grande: mi piaci così. Il tuo frigorifero”.

 

Roberta Schira

 

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